Amleto di Franco Faccio infiamma il pubblico del Teatro Filarmonico di Verona.

Successo per Amleto di Franco Faccio al Teatro Filarmonico di Verona nel

nuovo allestimento della Fondazione Arena di Verona.

Prima esecuzione in tempi moderni.

 

 

 

Amleto, una delle due opere del compositore e direttore d’orchestra Franco Faccio, è un’opera del 1865, periodo questo in cui durante la forte presenza di Giuseppe Verdi distoglie il pubblico dai tentativi innovativi dei coevi compositori.

Franco Faccio fu uno di loro, personalità di spicco nell’ambito musicale dell’epoca, tentò di introdurre nuovi stilemi operistici orientandosi ad una forma dell’opera più “aperta” cioè, componendo la sua opera senza “pezzi chiusi”.

Oggi diremmo che l’esperimento è ben riuscito ma, invece, all’epoca non fu capita e fu un fiasco alla messa in scena alla Scala di Milano nel 1871. Solo la prima assoluta a Genova al Teatro Carlo Felice ebbe gran successo.

Ad oggi son passati più di 150 anni da quelle messe in scena che vide cadere nell’oblio Amleto, che non fu più rappresentata per volere dello stesso Faccio.

Solo qualche anno fa, nel 2014, Ricordi ne pubblicherà un’edizione critica affidata a  Anthony Barrese e che sarà riportata così in scena a Baltimora e  Albuquerque nel 2016.

Il 22 ottobre 2023 il teatro filarmonico veronese la propone al suo pubblico sia per portare sul palcoscenico opere da riscoprire e rispolverare sia per omaggiare il compositore Franco Faccio veronese di nascita.

Amleto, che si rifà alla tragedia di Shakespeare, è il risultato del genio compositivo del musicista e la penna sapiente di un grande librettista e compositore padovano: Arrigo Boito.

I due musicisti erano legati, oltre che dalla terra natia, da fraterna amicizia che inizio’ negli anni di studio in conservatorio. Questo stretto legame fu la scintilla che portò la collaborazione dei due per la nascita di quest’opera. Entrambi avevano idee innovative per quanto riguarda la struttura dell’opera e trovarono quindi un filo conduttore che spinse l’uno a musicare la partitura senza pezzi chiusi e l’altro a creare un libretto ricco di contenuti che avvicinava la narrazione della tragedia alla drammaturgia della parola.

Nacque così Amleto: opera particolare e coinvolgente, ricca di sonorità orchestrali inusuali per gli stili dell’epoca e con una vocalità spinta ai limiti delle tessiture vocali.

Quattro atti intensi, in cui la tragedia, la vendetta, reo confessioni, inganni, veleni e morti, convivono e si intrecciano. I colori orchestrali sono variopinti: dai pianissimi intimi a fortissimi esplosivi, fanfare e marce funebri. Insomma, una tavolozza di colori e di ritmi che sorreggono la tragedia e che ne sottolineano la scena. Sul podio Giuseppe Grazioli attentissimo ai ritmi serrati ma delicato nei momenti intimi dell’opera. Dirige con coinvolgimento e rispetto.

Semplice ma ben strutturata la scenografia e le proiezioni grafiche create appositamente da Ezio Antonelli, pulita e scevra da suppellettili, ma mirata a far spiccare il momento e gli stati d’animo dei protagonisti: quinte scure, immagini proiettate per ricreare l’atmosfera. Pochi oggetti in scena, solo quelli funzionali e sensati: un trono, una cassapanca che funge da letto, un pugnale, un calice, spade per il duello tra Amleto ed il fratello Laerte.

In quest’opera ha un ruolo fondamentale il Coro, ben istruito da Roberto Gabbiani: molto presente sulla scena si impone con la sua possenza vocale. Di impatto sia visivo che vocale all’inizio, e al terzo atto per il funerale di Ofelia dove la regia di Paolo Valerio  lo muove a piccoli passi lenti con le candele in mano. Si muove scandendo il ritmo della marcia funebre orchestrale che ha rapito lo sguardo del pubblico, che ha applaudito a fine scena.

Dal lato vocale diciamo subito che l’intero cast ha retto l’ardua prova.

Angelo Villari è Amleto. Squillo e forza non gli mancano. Vocalmente ardua la sua parte, che insiste sulla parte acuta della tessitura tenorile, brilla anche per l’interpretazione che varia dall’inizio in una veste sofferente e afflitto per la morte del padre, introspettiva nel bellissimo monologo “Essere o non essere”, per  arrivare  all’eroico e vendicativo del quarto atto. Eccellente interpretazione.

Ottime le interpretazioni del Re e della Regina Gertrude, rispettivamente Damiano Salerno e Marta Torbidoni. Lui, dalla voce rotonda e regale, spicca nel Padre Nostro, in cui sottolinea ogni parola con intenzione. Lei, dopo un inizio un po’ incerto si rifà nel duetto con Amleto dove, reo confessa, interpreta vocalmente in modo struggente sfoggiando acuti ed un fraseggio accorto.

Gilda Fiume è Ofelia. La figura forse più controversa della tragedia, vista come delirante, incarna invece la donna succube, che nessuno ascolta. La Fiume interpreta il suo personaggio con una vocalità eterea, delicata, ma sicuramente sicura del suo mezzo vocale. La voce è scintillante e diamantina. Molto interessante nella sua ultima scena sul ciglio del fiume dove muore. Bella l’idea registica che, con un semplice lenzuolo nero, simula la sua morte, coprendosi sdraiata a terra.

Bene gli altri protagonisti a cominciare dal basso Alessandro Abis (Orazio), Francesco Leone (Polonio), Saverio Fiore (Laerte), Davide Procaccini  ( Marcello), Abramo Rosalen ( lo Spettro), Francesco Pittari (Re di Gonzaga), Enrico Zara (un Araldo),Nicolò Rigano (Luciano), Maurizio Pantò (un Sacerdote), Valentino Perera ( primo Becchino), Marianna Mappa (la Regina).

Indispensabili, in questo contesto, le luci curate da  Claudio Schmid, le immagini e la scelta di colori molto accurate hanno ricreato gli ambienti, gli stati d’animo dei personaggi, sottolineando l’atmosfera un po’ tetra della tragedia.

I costumi di Silvia Bonetti contrastano un po’ con l’impianto scelto, ma ben distinguono comunque i personaggi.

Molto belle le proiezioni di alcune parti del manoscritto dell’opera di Franco Faccio, che aprivano e chiudevano i quattro atti. In queste proiezioni si potevano scorgere le indicazioni sceniche oltre che quelle musicali, di organico e tempi.

Insomma un pomeriggio di riscoperta del bello che la nostra Italia ha, che ha prodotto e che tiene nascosto.

Il Pubblico molto caloroso alla fine dell’opera ha applaudito per dieci minuti gli artisti e le maestranze teatrali per questo gioiello della scapigliatura musicale riscoperto.

 

Salvatore Margarone

La recensione si riferisce alla prima del 22 Ottobre 2023

Photo©ENNEVI

 

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